Breccia di Porta Pia, 153 anni fa i Bersaglieri prendevano Roma

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La Breccia di Porta Pia portò a compimento il progetto di Cavour: Roma capitale d’Italia. Leggi qui per approfondire quei giorni concitati.

La Breccia di Porta Pia è una pietra miliare della storia d’Italia. Il 20 settembre 1870 il Regio Esercito prendeva infatti Roma, fino a quel momento sotto il controllo dello Stato Pontificio. Il successivo riconoscimento dell’Urbe come capitale del Paese fu il traguardo di un percorso che iniziò con i primi moti risorgimentali del 1821, del 1831 e del 1848. Ricordiamo in questo articolo i fatti che portarono alla Breccia di Porta Pia, fondamentale per la Presa di Roma e la fine del regno pietrino così com’era conosciuto.


INDICE
– La Breccia di Porta Pia: gli antefatti della Repubblica Romana
– Da Firenze capitale alla conquista del Veneto
– La Breccia di Porta Pia: la svolta prussiana
– La Presa di Roma: la Breccia
– L’ingresso dei Bersaglieri
– Breccia di Porta Pia: le conseguenze


La Breccia di Porta Pia: gli antefatti della Repubblica Romana

Il desiderio di trasferire a Roma la capitale del Regno d’Italia parte da lontano. Già Goffredo Mameli, autore del “Canto degli Italiani”, faceva nel settembre 1847 riferimento a Roma come culla della nostra civiltà. Lo stesso poeta, un anno più tardi, nel pieno dei moti che sconvolsero l’Europa degli assolutismi, si trasferì a Roma per aderire al comitato che proclamò la Repubblica Romana il 9 febbraio 1849.

L’intervento dei francesi di Napoleone III pose fine a questa iniziativa di stampo mazziniano, che ancora oggi rivive nella palla di cannone incastrata a Palazzo Colonna. Tuttavia, da allora era chiaro come Roma fosse un chiaro obiettivo nella politica del futuro Regno d’Italia. Con la vittoria nella Seconda Guerra d’Indipendenza, i conseguenti plebisciti e la Spedizione dei Mille condotta da Giuseppe Garibaldi, infatti, il re Vittorio Emanuele II ottenne il titolo di “Re d’Italia” (17 marzo 1861). Tuttavia, la capitale si trovava ancora a Torino, dove Camillo Benso conte di Cavour il 25 marzo tenne alla Camera dei Deputati un discorso destinato a fare la storia del nostro Paese.

Ora, o signori – dichiarò Cavour in Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato”. “Convinto di questa verità – proseguì il primo Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno – io mi credo in obbligo di proclamarlo nel modo più solenne davanti a voi, davanti alla nazione […]: la necessità di aver Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall’intiera nazione”.


Da Firenze capitale alla conquista del Veneto

La Breccia di Porta Pia era ancora lontana e tre anni dopo il discorso di Cavour, già si prefigurava per l’Italia un’altra sfida. L’unità territoriale non era infatti ancora conquistata, visto che gli austriaci continuavano ad occupare Mantova, il Veneto e il Friuli. Per garantire al re una maggiore protezione si decise pertanto di spostare la capitale del Regno. Dopo un ballottaggio fra Napoli e Firenze, venne scelta la città toscana, patria di illustri personaggi italiani, primo fra tutti Dante Alighieri. Il 3 febbraio 1865, alle ore 22.30 circa, il re entrava a Firenze accolto festosamente dai cittadini e dalle autorità.

L’anno seguente, l’Italia era pronta per affrontare definitivamente l’Austria-Ungheria in campo aperto, questa volta senza il sostegno di alcun alleato. Il casus belli fu l’attacco della Prussia a Vienna. In virtù dell’alleanza italo-prussiana il re non poté fare altro che dichiarare guerra a Francesco Giuseppe I. Le battaglie di Custoza e di Lissa furono però tutt’altro che trionfali per l’Italia, che però – grazie a Giuseppe Garibaldi – riuscì a farsi strada fino alle porte di Trento, tagliando le linee di rifornimento ai nemici.

Con la vittoria della Prussia sul fronte Nord e con l’intervento diplomatico di Parigi, la guerra volse con una vittoria per l’Italia. In particolare, l’Austria-Ungheria si ritrovò a cedere alla Francia la città di Mantova, parte del Friuli e tutto il Veneto. Napoleone III, successivamente, cedette questi territori al re con la conferma di un plebiscito. Tuttavia, a Garibaldi fu ordinato di fermarsi e di non procedere oltre con la conquista di Trento. Il patriota inviò a Firenze il famoso “Obbedisco” e la questione del Trentino-Alto Adige fu rimandata alla Prima Guerra Mondiale.


La Breccia di Porta Pia: la svolta prussiana

Ora non rimaneva che entrare a Roma. Questo però significava sacrificare l’alleanza dei Savoia con la Francia. Parigi, infatti, godeva di un rapporto privilegiato con il papato, un lungo sodalizio che partì con il re Clodoveo I, riconosciuto dal Papa come protettore di Roma nel V secolo. I francesi quindi avevano il dovere morale di difendere il Papa – e quindi Roma – fino allo stremo. I tentativi diplomatici di arrivare all’Urbe senza ricorrere alla Breccia di Porta Pia andarono infatti a vuoto. Anche la lettera di Vittorio Emanuele II a papa Pio IX non riscosse alcun successo.

Un evento decisivo per evitare l’intervento dei francesi però era desinato a cambiare le sorti dell’impresa. Il 15 luglio 1870, infatti, Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia. Per ottenere l’appoggio italiano il sovrano francese dismise le sue truppe dal porto di Civitavecchia e dalla provincia di Viterbo (nel Medioevo sede papale). Tuttavia, i ministri italiani avevano richiesto l’allontanamento dei francesi da Roma. Siccome questo non avvenne, l’appoggio italiano sfumò. Lo sforzo della Francia nel conflitto contro la Prussia fu totale, tanto che i francesi abbandonarono Roma il 3 agosto 1870.

La Presa di Roma: la Breccia

Si resero dunque necessari i preparativi per l’offensiva, che doveva svilupparsi su tre direttrici. A Nord-Est Nino Bixio era a capo della II Divisione, a Est Enrico Cosenz, Gustavo Mazè de la Roche e Emilio Ferrero comandavano il grosso dell’esercito (40 mila uomini sui 50 mila complessivi), mentre a Sud Diego Angioletti capitanava la IX Divisione. Il comando supremo delle operazioni era invece affidato al generale Raffaele Cadorna, che la sera del 10 settembre ricevette l’ordine di violare i confini dello Stato Pontificio. A entrare per primo nel Lazio fu Nino Bixio, che avanzò fino a Bagnoregio, mentre Angioletti si diresse il 12 settembre a Frosinone, occupandola.

Il 15 settembre Cadorna inviò una lettera al generale Hermann Kanzler, comandante dell’esercito pontificio. In questa missiva si pregava di deporre le armi e accettare l’occupazione pacifica di Roma, che venne dichiarata in stato d’assedio. In pochi giorni i tre tronconi di soldati italiani avanzavano nel Lazio, venendo accolti con favore dalle popolazioni locali. Tant’è che il 16 settembre tutte le divisioni si ricongiunsero all’altezza della Giustiniana, a 12 km a Nord di Roma.

I preparativi per la Breccia di Porta Pia (o Presa di Roma) iniziarono alle 5 di mattina del 20 settembre. Il primo punto di scontro ebbe luogo presso Porta San Giovanni, seguito da San Lorenzo e Porta Maggiore, mentre Nino Bixio conduceva un’azione diversiva su San Pancrazio. Il massimo sforzo dell’esercito italiano però si concentrò tra Porta Salaria e Porta Pia, che alle 5:10 iniziò ad essere cannoneggiata. Dopo quattro ore di tentativi, le mura iniziarono a cedere e una pattuglia di Bersaglieri del 34° Battaglione si recò sul posto per verificare le condizioni del varco, all’inizio non abbastanza largo per il passaggio delle truppe. Si rese chiara dunque la necessità di insistere su quel pertugio, che alle 9:45 circa del 20 settembre 1870 divenne abbastanza ampio.


L’ingresso dei Bersaglieri

Una volta constatato che era possibile sferrare il colpo decisivo, Cadorna ordinò la formazione di tre colonne d’attacco per varcare la soglia di Roma: 12° Battaglione Bersaglieri, 2° Battaglione del 41° Reggimento Fanteria “Modena”; 34° Battaglione Bersaglieri e tre battaglioni del 19° Reggimento Fanteria “Brescia”; 35° Battaglione Bersaglieri e i battaglioni del 39° e 40° Reggimento Fanteria “Bologna”. La carica venne suonata da Niccolò Scatoli, mentre il primo bersagliere a oltrepassare la breccia fu il sottotenente Federico Cocito.

La resa di Kanzler arrivò dopo che gli scontri in città si erano placati, mentre i soldati italiani occupavano piazza Colonna, piazza di Termini (oggi Piazza dei Cinquecento) e il Palazzo del Quirinale. La Città Leonina, Castel Sant’Angelo e i colli Vaticano e Gianicolo non vennero invece presi d’assalto per ordine del governo. Il 2 ottobre 1870 si imbastì il plebiscito che avrebbe poi consegnato formalmente Roma all’Italia: i “” furono 40.785, mentre i “no” registrati si fermarono ad appena 46. Questa cifra irrisoria non deve sorprendere, visto che le autorità ecclesiastiche avevano intimato i cattolici ad astenersi. La proclamazione di Roma Capitale ebbe luogo il 3 febbraio 1871.

Breccia di Porta Pia: le conseguenze

Pio IX non riconobbe mai l’occupazione dello Stato Pontificio, ritenendola – nella sua enciclica “Respicientes ea” “ingiusta, violenta, nulla e invalida“. La frattura tra l’Italia e i cattolici, dopo l’annessione di Roma, fu destinata a durare per molti altri anni. In effetti, lo spirito risorgimentale si identificava spesso con l’anticlericalismo, che affondava le sue radici nella massoneria ottocentesca, negli ambienti mazziniani e quindi repubblicani e democratici.

Per questo motivo, lo Regno d’Italia cercò di risanare la rottura con la Legge delle guarentigie, che garantiva alla Chiesa l’usufrutto dei beni ora proprietà della Città del Vaticano e al papa una serie di garanzie per la propria indipendenza. Questo compromesso, però, non trovò il sostegno dello stesso Pio IX e dei suoi successori. Anzi: la situazione era destinata a peggiorare. Il Sommo Pontefice, infatti, nel 1874 emanò il famoso “Non Expedit”, ovvero l’invito ai fedeli a non partecipare alle elezioni politiche dello stesso anno.

La distanza tra l’Italia laica e il potenziale elettorato cattolico proseguì fino al 1919, quando don Luigi Sturzo fondò il Partito Popolare Italiano. A livello giuridico, invece, una ricomposizione bilaterale dello strappo si ebbe con i “Patti Lateranensi” (1929) firmati da Pio XI e dal dittatore fascista Benito Mussolini. Peccato però che le Leggi Fascistissime (1925-1926) bandirono tutti gli altri partiti politici, compreso quello di Sturzo.

Il completo reintegro dei cattolici italiani nell’elettorato passivo si ebbe con la fine della Seconda Guerra Mondiale (Armistizio di Cassibile e successiva Resistenza) e il referendum per la Repubblica. Fu così che la Democrazia Cristiana, fondata durante la lotta partigiana da uomini del calibro di Alcide De Gasperi, Giovanni Gronchi, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Amintore Fanfani, Paolo Emilio Taviani e tanti altri coraggiosi patrioti, si impose come partito di maggioranza relativa per i successivi cinquant’anni.

Quando ebbe luogo la Breccia di Porta Pia?
La Breccia di Porta Pia ci fu il 20 settembre 1870 ad opera del Regio Esercito del Regno d’Italia che con questa azione si assicurò il controllo di Roma, dichiarata capitale l’anno successivo.
Perché si rese necessaria la Breccia di Porta Pia?
Si arrivò alla drastica decisione di procedere con la Breccia di Porta Pia dopo che i tentativi diplomatici con la Santa Sede fallirono. Il papa e le sue milizie, guidate dal generale Kanzler, decisero di difendere con ogni mezzo Roma. Questo non diede altra scelta al re Vittorio Emanuele II e a Raffaele Cadorna che cingere d’assedio l’Urbe.
Quali furono le conseguenze della Breccia di Porta Pia?
La scelta di prendere Roma manu militari causò una frattura profonda tra i cattolici e il Regno. Nel 1874, anno delle elezioni politiche, papa Pio IX arrivò addirittura a vietare ai suoi fedeli di partecipare alle votazioni (“Non Expedit“). Il primo gruppo politico di chiara ispirazione cattolica di ebbe solo nel 1919, quando cioè don Luigi Sturzo fondò il Partito Popolare Italiano, bandito con le Leggi Fascistissime del 1925-1926. L’eredità di Sturzo venne raccolta da uomini del calibro di Alcide De Gasperi e Aldo Moro, che fondarono la Democrazia Cristiana.

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